Caso Mered: la prova del Dna scagiona il detenuto?

“Mio figlio non è Mered, perché lo chiamano con quel nome, lui è Medhanie Tesfamariam Behre. Non devono chiamarlo Mered”. Meaza Zerai Weldai ha intrapreso un lungo viaggio dall’Eritrea a Palermo, per provare a salvare il figlio detenuto al Pagliarelli. Il giovane ventisettenne è stato estradato da Khartoum nel maggio 2016, dopo un’operazione internazionale sull’asse Italia-Inghilterra-Sudan, con l’accusa di essere Medhanie Yehdego Mered, il trafficante di esseri umani conosciuto come “il Generale”.

“Sono in Italia per sottopormi al test del Dna – racconta con commozione Meaza al Fatto – per dimostrare che quello è mio figlio, non è un trafficante”. Medhanie è il quartogenito, il più piccolo, i suoi fratelli vivono tutti rifugiati all’estero, mentre la madre ormai vicina alla sessantina è rimasta sola ad Asmara, dove lavora con alcuni docenti italiani che insegnano nella capitale eritrea.

Il processo continua da quasi un anno e mezzo, inizialmente alla IV sezione del Tribunale di Palermo, che dopo aver dichiarato la propria “incompetenza per materia” ha passato il testimone alla seconda sezione della Corte d’Assise, presieduta dal giudice Alfredo Montalto; intanto Medhanie resta in carcere. L’avvocato Michele Calantropo ha presentato numerosi documenti per dimostrare che il suo assistito non è la persona accusata dai magistrati palermitani, tra questi lo stato di famiglia, i certificati d’identità e d’istruzione. Persino il passa- porto eritreo del vero Mered, detenuto negli Emirati arabi uniti perché in possesso di un documento falso, nello stesso periodo in cui il giovane Behre veniva catturato a Khartoum.

L’ULTIMO ATTO è la relazione di consulenza genetica presentata ieri, in cui risulta che “la signora Meaza Zerai Weldai è la madre biologica di Medhanie Tesfamariam Berhe”, con una “probabilità di maternità pari al 99,99%”. “Il dato del Dna è una prova regina, un elemento tangibile dell’identità del mio cliente, – spiega l’avvocato Calantropo –, in più c’è il verbale di Seifu Haile che dimostra che il mio cliente non è il trafficante”.

La Procura di Palermo però resta fermamente convinta che l’imputato sia il vero scafista, accusato di essere stato uno degli organizzatori del viaggio naufragato il 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, in cui persero la vita 368 persone migranti, 155 furono i superstiti.

I pm si sono opposti all’acquisizione di tutti gli atti presentati dalla difesa, compresi i documenti prodotti dai colleghi romani in cui sono presenti le dichiarazioni spontanee dell’eritreo Seifu Haile, estradato dalla Svezia e oggi detenuto a Rebibbia, con l’accusa di traffico di esseri umani. Seifu ha lavorato per il vero Mered in una mezra, magazzino prigione, in Libia, e nel corso di un interrogatorio con il pm Carlo Lasperanza, ha riconosciuto “il Generale” nell’uomo che “indossa anche una catenina con una grossa croce”, “con i capelli lunghi e un po’ stempiato”. Lo scatto è stato estrapolato dal profilo Facebook di Mered, e usata nel corso delle indagini dalle autorità olandesi, svedesi e dalle procure italiane.

I MAGISTRATI palermitani, però, ritengono non rilevante il test del dna, perché riferiscono che la loro indagine “non si basa su dati genetici, ma su dati di altra natura”, che si avvalgono delle intercettazioni telefoniche e delle perizie foniche. Nelle prossime udienze si attende, per la seconda volta, il vicequestore aggiunto di Palermo Carmine Mosca, presente a Khartoum nel corso dell’estradizione di Behre, che aveva espresso “delle perplessità” e “dei dubbi sull’identità dell’imputato”, perché “rispetto alla foto la persona consegnata (dalle autorità sudanesi, ndr) non aveva quelle fattezze”.

Tra qualche giorno Meaza farà ritorno in Eritrea, e si commuove mentre guarda il figlio seduto nella cella di protezione: “È un ragazzo gentile e buono, l’ho educato con sani principi – racconta la madre – e quando ho visto le immagini del suo arresto mi sono sentita male, sono quasi svenuta”.

** Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano (pag. 15), giovedì 26 ottobre 2017 **

** Le foto pubblicate sul giornale sono state scattate da Francesco Bellina/Cesura **

Saul Caia

Saul Caia

Giornalista freelance. Dopo alcune esperienze all'estero, tra cui Spagna, Canada e Stati Uniti, sono rientrato in Sicilia. Oggi collaboro con Il Fatto Quotidiano realizzando video e articoli di cronaca e approfondimento.
Tra i riconoscimenti più importanti ho ricevuto il DIG Awards 2017, il premio 'Roberto Morrione' 2012, il premio giornalista emergente in Sicilia 'Giuseppe Francese' 2016.
Saul Caia

Saul Caia

Giornalista freelance. Dopo alcune esperienze all'estero, tra cui Spagna, Canada e Stati Uniti, sono rientrato in Sicilia. Oggi collaboro con Il Fatto Quotidiano realizzando video e articoli di cronaca e approfondimento. Tra i riconoscimenti più importanti ho ricevuto il DIG Awards 2017, il premio 'Roberto Morrione' 2012, il premio giornalista emergente in Sicilia 'Giuseppe Francese' 2016.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *