“Mered? In Libia è un re”. Parla il pentito vicino al ‘Generale’

L’eritreo Seifu Haile, condannato a 10 anni e 8 mesi, ha messo a verbale il ritratto del boss degli scafisti oggetto di un’inchiesta della Procura di Roma: “Ha comprato la mia vita, forse è l’unico che può girare nel Paese con un crocifisso al collo”. La sua testimonianza potrebbe essere determinante per scagionare l’uomo attualmente sotto processo a Palermo, che nega di essere il ricercato.

“Medhane è un re in Libia, è molto rispettato”. A raccontarlo ai magistrati della Procura di Roma è l’eritreo Seifu Haile, 28 anni, estradato nel 2014 dalla Svezia e oggi detenuto a Rebibbia, dove sta scontando una condanna in primo grado a 10 anni e 8 mesi per traffico di esseri umani. La sua collaborazione con la giustizia è alla base dell’indagine romana condotta dal procuratore Carlo Lasperanza, che da diversi anni è alla caccia del ‘generale’ Medhane Yehdego Mered.

mered-e-seifuNel corso dell’udienza di lunedì 19 novembre, alla Quarta sezione penale di Palermo, è stato depositato il verbale di Seifu che scagionerebbe il connazionale Medhanie Tesfamariam Berhe, detenuto al Pagliarelli e accusato di essere il vero Mered. Il collaboratore di giustizia, nel verbale del maggio 2015, racconta ai magistrati di essere entrato a far parte dell’organizzazione di Mered dopo un lungo e travagliato viaggio costato 1600 dollari, partendo nel 2013 dall’Eritrea, e passando per Etiopia, Sudan e Libia. Durante un trasferimento insieme ad altri 200 migranti, in un container diretto a Tripoli, alcuni miliziani lo sequestrano a Gasr Garabulli. Chiedono per la liberazione 1200 dollari, chi non può pagare ha la possibilità di chiamare al cellulare uno ‘smuggler’, un trafficante, che faccia da garante per la loro. “Sono stato fortunato che Medhane ha comprato la mia vita, – si legge nella deposizione di Seifu – di tanta gente non si è più saputo nulla a Garabulli, ti torturano fino alla morte o ti rivendono, lascio immaginare a voi cosa fanno alle donne”.

Medhane Yehdego Mered in uno scatto del suo profilo facebook.
Medhane Yehdego Mered in uno scatto del suo profilo facebook.

Per ripagare il suo debito, il giovane eritreo entra nella cerchia di Mered. “Mi reclutò e mi diede l’incarico di compilare e confrontare delle liste, in seguito mi affidò anche un telefono che potevo utilizzare solo per ricevere chiamate dai suoi referenti e dai parenti dei migranti”. Seifu continua spiegando ai magistrati i metodi adottati dal ‘generale’ nel corso della gestione delle operazioni. “Successivamente Mered, li scarica in un suo computer e da incarico a uno di noi di trascriverli su carta. Il foglio viene poi letto da uno dei tre capi sottostanti a Medhane, che comunicano ai migranti chi ha ricevuto il pagamento dai parenti”.

Nella cerchia di persone che lavorano per il ‘generale’, ci sono molte persone ‘comprate’ dai libici. “Come me nella mezrha (cortile o capannone, nda), – racconta Seifu – c’erano altri migranti obbligati a collaborare con l’organizzazione, chi si occupava della cucina, chi delle pulizie, chi offriva assistenza medica e chi veniva messo a fare la guardia. Rifiutarsi significa scegliere di essere uccisi”. I magistrati si sono interrogati anche sul metodo adottato da Mered per riconoscere ogni singolo migrante che intraprende il viaggio con la sua organizzazione. “Lui non può ricordarsi i nomi dei migranti e non deve dimenticarsi di nessuno, – spiega Seifu – la sua tecnica di contabilità assegna una lettera e un numero al migranti”.

L’attendibilità del collaboratore di giustizia, spiegano i magistrati nell’atto depositato, è avvalorata dal fatto che ha “lavorato in Libia” per Mered, “coabitando nella medesima casa” nel “periodo in cui venivano eseguire le indagini”. Per questo motivo è inserita l’intercettazione telefonica del luglio 2014, in cui Seifu conferma al suo interlocutore che Mered è l’uomo nella foto “con i capelli lunghi e un po’ stempiato”, e che “indossa anche una catenina con una grossa croce”. Il riferimento è allo scatto recuperato in fase d’indagine dal profilo Facebook del trafficante, lo stesso utilizzato dalla Procura di Palermo nel corso dell’indagine al ‘generale’. “Mered è uno dei pochi, forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo. – racconta Seifu ai magistrati romani – Lui è cristiano”.

Per il momento Medhanie Tesfamariam Berhe resta detenuto al Pagliarelli, in attesa della prossima udienza fissata al dieci gennaio. Nei prossimi giorni sarà presentata un’interrogazione parlamentare dal deputato Erasmo Palazzotto (Si-Sel), che chiederà lumi sulla vicenda al governo, ma potrebbe anche arrivare un nuovo colpo di scena. Si attende infatti, il pronunciamento del Tribunale del Riesame di Roma, che su richiesta dell’avvocato Michele Calantropo, difensore di Berhe, potrebbe portare alla scarcerazione di quest’ultimo in virtù delle rivelazioni fatte da Seifu.

** Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano.it, mercoledì 21 dicembre 2016 **

Saul Caia

Saul Caia

Giornalista freelance. Dopo alcune esperienze all'estero, tra cui Spagna, Canada e Stati Uniti, sono rientrato in Sicilia. Oggi collaboro con Il Fatto Quotidiano realizzando video e articoli di cronaca e approfondimento.
Tra i riconoscimenti più importanti ho ricevuto il DIG Awards 2017, il premio 'Roberto Morrione' 2012, il premio giornalista emergente in Sicilia 'Giuseppe Francese' 2016.
Saul Caia

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Giornalista freelance. Dopo alcune esperienze all'estero, tra cui Spagna, Canada e Stati Uniti, sono rientrato in Sicilia. Oggi collaboro con Il Fatto Quotidiano realizzando video e articoli di cronaca e approfondimento. Tra i riconoscimenti più importanti ho ricevuto il DIG Awards 2017, il premio 'Roberto Morrione' 2012, il premio giornalista emergente in Sicilia 'Giuseppe Francese' 2016.

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